Meditazione e Psicoterapia?
Chandra Candiani
olte malattie sono forme di assenza, scissioni, cesure, fra un vissuto e un comportamento, fra una sensazione somatica e un’emozione, fra un desiderio e una paura, fra una possibilità nuova ed un conflitto antico…
Gran parte dei comportamenti patologici potrebbero essere letti come “fretta di mettere una toppa”, eliminare un vissuto non pensabile, percepito come intollerabile o semplicemente discrepante da ciò che ci saremmo aspettati da noi stessi, dagli altri, dalla vita.
La toppa reattiva usa un agito di dipendenza (alcol, sostanze, gioco, sesso, cibo…) per veicolarci altrove dall’attimo presente. La toppa proattiva (Shwartz, 2023), indossa invece una veste “performante” o socialmente accettabile e coerente (lavoro, sport, volontariato…) ma la cui qualità compulsiva impedisce un autentico momento di contatto.
La pratica meditativa anela e predispone ad un istante di rilassamento in ciò che sta accadendo così per come è, senza dissociarci, senza tentare di migliorarci, ma rimanendo svegli di fronte al malessere.
La presenza mette, per così dire, il piede nella porta dell’automatismo e consente l’attimo di sospensione necessario al fine di scegliere se agire in modo abituale o sperimentare il non conosciuto, se mettere in atto una reazione o una risposta.
La visione profonda (Vipashiana), non restituisce dunque un’azione logica ma piuttosto accompagna ad uno sguardo tenero, capace di avvolgere la paura e accompagnarla in uno spazio di compassione e comprensione per la propria vulnerabilità.
Nicoletta Cinotti, ‘Genitori di se stessi’ 2023
a pratica meditativa ha caratterizzato il modo in cui sono terapeuta modificando la qualità di ascolto e influenzando mio atteggiamento alla clinica.
Nel lavoro non conduco, né tanto meno insegno, la meditazione al paziente, ma la mia esperienza di meditante orienta la qualità di incontro con la persona e i suoi vissuti.
Laddove la meditazione segue il filo del respiro e ricerca nell’inspirazione e nell’espirazione le facoltà dell’accogliere e del lasciar andare; allo stesso modo la terapia ricerca un equilibrio nell’impermanenza, riconoscendo nell’aggrapparsi e nel combattere i segni di attaccamenti e avversioni.
Laddove il meditante nomina e poi lascia al loro corso pensieri e distrazioni per tornare al semplice respiro, allo stesso modo il paziente può imparare a riconoscere e a rinunciare a narrazioni o a giudizi che offuscano la presenza.
L’attitudine meditativa alla propria vita costituisce un “invito a fare orto” della propria esistenza, permette di interporre una distanza di contemplazione e coltivare un luogo dal quale osservare e osservarsi: un sé. Il quale non intende prevedere o delimitare ma piuttosto entrare in nuda relazione con ciò che accade: “Il non sapere è la più grande intimità” (Norman Fisher).
Pema Chodron