Lasciare il campo cantando

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Nei post che seguiranno accosterò frasi scelte dalle Lettere che Etty Hillesum scrisse nel campo di concentramento di Westerbork a risonanze  incontrate in tempo di pandemia. Affondo la mia traccia nella speranza di fare anima, toccare solitudini, valicare distanze. Desidero custodire l’esperienza umana solcata a piccoli passi lungo il filo spinato di questo tempo

 

“Credo che per noi non si tratti più di vivere, ma dell’atteggiamento da tenere nei confronti della nostra fine. […] Quasi tutte le persone di qui sono molto più povere del necessario, perché nel libro mastro della vita registrano la loro nostalgia degli amici e della famiglia come una perdita, mentre il fatto stesso che un cuore sia in grado di desiderare e amare così tanto bisognerebbe conteggiarlo fra i beni più preziosi. Accadono proprio dei miracoli in una vita umana, la mia è una catena di miracoli interiori. Ogni momento della propria vita in cui si è privi di coraggio è un momento sprecato.

Sono seduta sul mio zaino nel mezzo di un affollato vagone merci. Papà, la mamma e Misha sono alcuni vagoni più avanti. La partenza è giunta piuttosto inaspettata, malgrado tutto. Un ordine improvviso mandato appositamente per noi dall’Aia. Abbiamo lasciato il campo cantando, papà e mamma molto forti e calmi e così Misha. Viaggeremo per tre giorni. Arrivederci da noi quattro.

Etty Hillesum “Lettere 1941-1943” Edizione Integrale Adelphi 2013 pag tra 117 e 155

 

Quando ti ammali poi

cambia tutto. Cambia la percezione del tempo perso del tempo preso. Sfuma la rabbia per chi non sta a casa, si stempera l’ansia per la crisi economica, s’annoiano i numeri della protezione civile. Rosoli in una febbre sciatta mentre controlli il fiato ad ogni battito del cuore. Giri intorno ad un tavolo con la stessa speranza con cui in certe mattine ti sei affidato ai boschi, senti un medico al telefono con una gentilezza che implora magie, allontani tutti di casa mentre li vorresti con te sotto le coperte a tenerti la mano. E chi lo porta il cane, e chi ha il coraggio di lanciarti la spesa. Si spegne finalmente la fatica dovuta di Skype: hai poco fiato e lo tieni per correre dietro a Dio.

E’ il momento di guardare negli occhi la paura celata dietro alle contestazioni sceme, agli attaccamenti viziati, alle ingenue nostalgie. Non t’importa di ricostruire l’albero genealogico del tuo virus, da chi e da come sia entrato nei tuoi polmoni se dal naso o dagli occhi e di che qualità fosse la mascherina e se hai infilato bene i guanti e di chi ti ha calpestato i piedi mentre facevi la spesa.  Non hai nelle mani la forza di tenere un libro e allora è il momento di calarsi dentro. Allestire un piccolo sottomarino del cuore che scende e fa grandi bolle mentre viaggia per l’anima a cercare conchiglie di una qualche poesia che non sapevi di portare a memoria. Trovare forzieri sommersi che conservano l’oro dei tuoi ricordi più antichi per nulla ossidati. Nascosti nella sabbia luminosi coralli di bene. C’è un antico veliero incastrato sul fondo: è la vita di tutti, il sacro passaggio che siamo che ha un inizio e una fine né un presto né un tardi. Il legnoso veliero ha accolto il vento portandosi in mare fino al grande tuffo, alla profondità, al silenzio, all’immobilità.

Atterrato in quel fondale, dentro di te, non c’è più ossigeno… stai nuotando sai? Se hai ancora una piccola riserva di amore, affida a quella bottiglia l’ultimo messaggio.

Chi la raccoglierà troverà il tuo:

“grazie”

saprà che hai lasciato il campo cantando.

 

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